Un presidio Slow Food: il tiròt di Felonica

In dialetto mantovano Tiròt è una focaccia tipica, da tempo prodotta a Felonica, l’ultimo Comune della bassa mantovana, a un centinaio di chilometri dal delta del Po, al confine tra Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Il tiròt è un prodotto talmente radicato nel territorio che la festa del paese, alla metà di agosto, è interamente dedicata a questa focaccia. Tradizionalmente si mangiava il tiròt durante il lavoro nei campi o alla fine della giornata, quando al crepuscolo le famiglie si riunivano nelle aie delle fattorie. Di primo mattino, le donne preparavano l’impasto a base di farina di grano tenero, cipolla, strutto, lievito, acqua e sale per poi recarsi ai forni collettivi del paese per la cottura. E dai forni, il profumo intenso ma gradevole di cipolla invadeva tutte le vie di Felonica.

Di questa ricetta si hanno notizie già nel vocabolario mantovano-italiano di Francesco Cherubini, risalente al 1827.
L’origine del nome di questo prodotto deriva dalla fase iniziale della sua lavorazione manuale: quella in cui la morbida, collosa e soffice pastella viene stesa, o meglio “tirata”, sulla teglia da forno, prima della cottura. Dopo averlo versato sulla teglia, si attende la lievitazione prima di cuocerla in forno.
Tagliata tradizionalmente in forme rettangolari, alla vista questa focaccia si presenta di colore giallo paglierino carico e dorato, con uno spessore di pochi millimetri. Ciò che la rende assolutamente inconfondibile, però, è l’aroma intenso della cipolla, che al palato si presenta dolce ma sapido.

Dorata e dolce, la Cipolla di Felonica, è una coltivazione quasi estinta sul territorio dell´Oltrepò mantovano, oggi impegnato nella produzione di numerose altre tipologie ibride. Le motivazioni sono da ricercarsi nel crollo dei prezzi sul mercato nazionale e nelle caratteristiche peculiari dell´apparato vegetativo del bulbo che ne limitava la conservazione a 90 giorni invece di uno o due anni.
A Felonica, la coltivazione massiccia di cipolle risale al XIX secolo e, in particolare, la cipolla bionda ha costituito a lungo la fonte maggiore di reddito. Dopo la seconda guerra mondiale, la coltivazione locale della cipolla coinvolgeva tutte le famiglie (bambini, anziani, agricoltori, ma anche operai e impiegati) che affittavano piccoli appezzamenti per integrare i magri stipendi.
Si costruirono magazzini per la lavorazione, nacque una fabbrica per la produzione di cassette di legno, le cipolle erano spedite col treno all’estero, soprattutto in Francia, in Germania e in Svezia. Ma alla fine degli anni ’70 la produzione di cipolla entrò in crisi (l’ultimo magazzino ha chiuso una trentina di anni fa) e, di conseguenza, il tiròt è diventato una produzione limitata, la tradizione familiare man mano è calata e gli antichi forni comuni hanno cessato la loro attività.

Per fortuna esistono ancora rasdore (cuoche, in dialetto locale) capaci di tramandarne i segreti, e nel contempo questo prodotto così unico ha attirato l’attenzione di Slow Food, che ne ha fatto uno dei propri “presidii del gusto”. Ma il tiròt è anche una specialità gastronomica appartenente all’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, fra i prodotti tradizionali della regione Lombardia.

Per concludere: una singolare gestualità, frutto della tradizione contadina, si è trasformata nel tempo in autentica ritualità. Per anni si è gustato questo alimento nei campi, al termine della raccolta delle cipolle, in un momento di festa collettiva e consolidata tradizione. Oggi è invece generalmente apprezzato da chi sa riconoscere antichi sapori e antichi richiami.